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25 aprile 2020

Il Covid-19 lo prendi in ospedale

Migliaia di persone si sono ammalate di Covid-19 nelle case di riposo e negli ospedali.

Molte di esse sono purtroppo morte, come il padre di un ragazzo della provincia di Torino, che entrò in ospedale per un intervento chirurgico, perfettamente riuscito, ma che nonostante ciò, non si sa perché, si ammalò di Covid-19 dovendo rimanere decine di giorni lì, ovviamente in un altro reparto, per poi... MORIRE!

Immagina di entrare in un ospedale qualunque (nel civilizzato ed industrializzato NORD) per portare a termine un percorso di cure lungo, complesso, faticoso. Immagina che, nel frattempo, un virus qualunque, infetti, uccidendole, migliaia di persone: chiaro, molte di queste erano già deboli, malate, piene di acciacchi, non in perfetta salute; ma tu, se riesci, immagina che tra quelle potrebbe esserci un tuo caro. O tu stesso.

Ti fanno entrare nel reparto – eri in una lista programmata, mica cazzi – dopo averti misurato la febbre, controllato mascherina e gel nelle mani; saluti gli sventurati che ti hanno accompagnato senza poterli TOCCARE, senza baci né abbracci, solo un veloce saluto perché così non prendiamo infezioni in corridoio.Immagina di non poter toccare tua moglie, tuo figlio, tuo marito, tua figlia. Fatto? Ok, bene.

Immagina di entrare in reparto: ti spogliano, ti mettono al sicuro gli effetti personali, ti esortano ad essere tranquillo – col cazzo che sei tranquillo, se poi te lo dicono così, nemmeno ci pensi – ti dicono “la operiamo alle 14, lo dica ai suoi”, poi ti operano, ti svegli 8 ore dopo e ti dicono “la intubiamo alcune ore, non respira molto bene”.
Suona il telefono all’una di notte, è quello di tua moglie: lei risponde: “sì signora sono il medico, suo marito sta bene è qui con me adesso glielo passo, l’operazione è un successo, lo intubiamo qualche ora ma lei STIA TRANQUILLA!! E’ SOLO PRECAUZIONE.

Immagina tua moglie ora, come possa sentirsi tranquilla, rilassata, piena di speranze ed allegria: peccato non possa andare a ballare, per dire…
Immagina di sentirti dire che l’operazione è perfettamente riuscita, che il fegato si sta incanalando, che è questione di giorni, tempo di andare in bagno, mangiare, riprendere le funzionalità generali e via, pronti per tornare a casa.

Invece un cazzo!!, toglitelo dalla testa: dopo due giorni di speranza ed illusioni al telefono con moglie figlio suocera amici, arriva la lieta novella: il secondo tampone è positivo. Il primo era negativo, ma questo è positivo, domani ti mettono nel reparto COVID19.

Ti senti ancora bene? Benissimo. Immagina di sentirti sperso, i medici che riconoscevi, IMPROVVISAMENTE, non li vedi più, gli infermieri – vestiti da astronauti, per loro stessa ammissione – non ti toccano, ti parlano da due metri di distanza (giustamente, ma tu non sai perché); Sicuramente, qualcuno dei medici di turno ti ha detto “guardi il suo secondo tampone è positivo, deve stare qui per curarsi”… Ma cazzo è un tampone? Io ero in un reparto in cui mi coccolavano, dovevo uscire al sabato di Pasqua, dove sono?
Immagina di sentirti così impaurito che ti agiti sempre di più, ti incazzi, ti strappi più volte i cateteri, il sondino gastrico, le flebo, urli e bestemmi come un turco. 

Chiami casa dici “qui mi legano alle sbarre, non mi fanno scendere dal letto nemmeno per pisciare, porco qui porco li; dall’altra parte della cornetta si agitano più di te, inizia un calvario condiviso in cui nessuno vede nulla, sente nulla, non ci sono dialoghi, colloqui con i medici, nessuno ti accarezza, ti rassicura. Passi i giorni nel letto, senza cure se non un antipiretico.

Bello vero? Dai che poi passa. Tu immagini…Nel frattempo, mentre sai di essere IMMUNODEPRESSO, muori di paura, urli e ti agiti ancora, così ti sedano come una bestia, ti tengono buono perché sennò è peggio, ti fai del male. Così dormi sempre, tanto l’unica cosa da fare è aspettare: in questo caso DI MORIRE.
Immagini ancora? o stai iniziando a pensare che potrebbe succederti davvero?

Continua così, immagina pure di perdere le forze, la speranza, la lucidità; non riesci più a telefonare a casa, NON CE LA FAI, NON SEI LUCIDO NON TROVI I TASTI DEL TELEFONO, i tuoi cari non ti sentono più, non ti vedono più, si attaccano alla telefonata dei medici che dicono più o meno sempre le stesse cose: “il signore non collabora, è agitato, non riusciamo a curarlo bene e poi sa, ha avuto tanti problemi prima di finire qui, era già un paziente molto difficile”…

Tu chiami al cellulare di tuo marito e quello squilla a vuoto tutti i giorni, nessuno risponde, così chiami il reparto 3 volte al giorno chiedi di metterglielo in carica, quel cazzo di cellulare, ti arrabbi con il malato dici “come è possibile che non chieda di chiamare casa? che non chieda di me, della moglie, del figlio?!?” Poi, in modo più o meno improvviso, ti dicono che il malato non è in grado di usare il telefono, che la saturazione dei polmoni è calata, che c’è la febbre alta, c’è la polmonite, che lui viene alimentato col sondino e non possono intubarlo per evitargli una prematura dipartita.

Prova adesso, se riesci, ad immaginare come ci si sente, essendo parente di un disgraziato così. Anzi, immagina di essere lui.
Ore 15.49 “Buongiorno, sono la dottoressa tal dei tali, la chiamo dall’area critica, suo padre, come le hanno già detto i colleghi ieri è molto provato, molto malato, sarò sincera: non ci sono più speranze che riesca ad uscirne, purtroppo io temo che non superi la giornata”.
Cioè, quella di oggi?

Immaginati dall’altra parte del telefono. Provaci, dai…
Ore 16,27 “Signor Turchetto, sono sempre la dottoressa tal dei tali, purtroppo il papà è deceduto poco fa. Non ha sofferto, la morfina l’ha accompagnato dolcemente alla fine”.
Ah, è morto?
“Sì. Se riesce, l’aspettiamo entro le 19.30; venga in portineria, le consegnamo noi gli effetti personali del papà, li mettiamo in un sacco”. Certo, grazie dottoressa, ringrazi il personale medico, ci scusi, mio padre era tanto spaventato.
Da morire.

Dal 2 di aprile alle ore 7.50, nessuno – tranne il personale in servizio nei reparti ospedalieri – ha più visto mio padre. Dopo 19 giorni è morto, dopo altri 3 abbiamo visto una bara con il suo nome scritto sopra.

Il corpo, avvolto in un sudario, è stato inserito in un sacco di nylon, poi messo nella bara e sigillato. Come per Cristo, manca l’esposizione del corpo, nessuno l’ha visto, – né lui né gli altri amici del COVID – nessuno può confermare che quella bara lo contenga, tocca fidarsi della burocrazia. La stessa che perde le mail, quella che ci dice di non camminare in collina o al parco ma ci fa morire nei luoghi di cura. Prima o poi, qualcuno dovrà spiegare. Immagino. Ma voi, STATE A CASA».

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