Ho letto un trafiletto molto profondo di Irene Amodei, una collaboratrice de La Stampa, quotidiano che leggo molto spesso.
Fa un paragone calzante che approvo in pieno tra europei e africani.
Ad esempio: un inglese che vive in Kenya viene soprannominato "expat" (termine inglese che sta per espatriato, e non è un dispregiativo), mentre un eritreo che vive (o tenta di vivere) in un'altra parte del mondo, è un semplice migrante con tutte le conseguenze del caso, ovvero per consentirgli di vivere in Europa, qualcuno deve prima verificare se sei ad esempio un perseguitato dal punto di vista etnico, politico e/o religioso. In questo caso potrà aspirare al titolo di "richiedente asilo" e dopo di "rifugiato". Ma non sarà mai un "expat"!
"In base ad una definizione che dire più esistenziale che semantica, l'expat è bianco e caucasico. Egli non migra, tantomeno alla ricerca di un lavoro, altrimenti rischierebbe di finire nella categoria, non particolarmente popolare oggigiorno, di migrante economico".
L'expat infatti pare partire in missione, va in un esilio dorato.
Chi decide che l'ingegnere nucleare ucraina che viene in Italia a fare la badante è una migrante, mentre lo studente italiano che fa il cameriere a Parigi è un expat?
"Si può evolvere? Come? Succede come per la bellezza, che dipende dall'occhio di chi guarda? Se davvero fosse così, mi permetto di consigliare una visita oculistica, perché è evidente che dobbiamo tutti cambiare le lenti degli occhiali, e di corsa".
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